La nostra allieva Emanuela Fulli, Olista e Coach ACC- ICF, ci ha raccontato la sua partecipazione ad un evento a Malaga per la creazione di un Documentario sul Coaching. La ringraziamo per il suo prezioso racconto. Buona lettura!

Fra le tante email che ricevo in continuazione a volte ne capita qualcuna che, per qualche ragione oltre il consapevole, attira la mia attenzione e così mi viene da cliccare su ‘leggi’.

Quella in questione si intitolava “Ispiriamo un milione di persone con il Coaching!”.

Il titolo mi piacque immediatamente ma soprattutto l’idea di inspirare cosi tante persone attraverso la meravigliosa professione che faccio. Si trattava di un invito (ignota mi è ancora la ragione per cui è arrivato a me) ad un evento a Malaga in Spagna riguardo alla creazione di un film/documentario sul Coaching.

Ci penso e ci ripenso e poi decido di partire. Non sono affatto affascinata dall’idea di un affollato luogo con le luci della ribalta, ma la possibilità di poter partecipare all’instillare in un qualsiasi modo un semino di amore per il Coaching mi ha decisamente fatto gola.

Mi immaginai l’evento con un stile quasi ‘Hollywood’, pieno di coach e di gente del mestiere e già mentalmente mi cercavo un posto in cui poter osservare il tutto e catturare l’energia dell’occasione senza stare al centro della pista, ancor di più perché avevo la mia possibilità di partecipare come coachee ad una delle sessioni di Coaching facenti parte del programma.

Arriva la partenza, il volo, la macchina in affitto, il check-in in albergo e poi la mattina dell’evento.

Il Coaching è la mia passione, è in linea con i miei valori più intimi e con la mia personalità versatile e variegata. Appaga il mio senso di appartenenza, il mio senso di ‘umanità’ ed il bisogno innato che ho di fare qualcosa che abbia un significato per me e per altri, ma che non sia necessariamente ‘il mio significato’. Mi permette di essere me stessa ed al contempo di essere strumento prezioso nelle mani del cliente. Come qualcosa che c’è ma non si vede.

Me ne sono innamorata al primo incontro nel 2010, e da allora non l’ho più lasciato!

Questa è la ragione ed il sentimento per cui mi sforzai di andare ad un evento che immaginavo fosse un palco troppo illuminato per i miei gusti.

L’evento

Il luogo dell’evento, poco fuori Malaga, apparve subito essere insolito: un paesino remoto e apparentemente disabitato arroccato su una collina. La strada che portava al luogo era bianca, sterrata, polverosa, ripida in salita e permetteva il passaggio ad un solo veicolo per volta senza alcuna possibilità di manovra.

Alla fine dei 20 minuti impiegati su tale stradina per raggiungere la destinazione, finalmente alla mia sinistra si aprì alla vista il punto di arrivo: una bellissima villa, con terrazza e piscina, che giaceva sul fianco scosceso della collina con una vista mozzafiato sulla valle fino al mare.

Mentre mi incammino verso il cancello d’ingresso mi viene incontro un signore sorridente, Patryk Wezowski, organizzatore dell’evento insieme alla moglie Kasia, che mi invita ad entrare ed a mettermi comoda.

Mi rendo immediatamente conto che il contesto è relativamente ristretto per ospitare la Première che avevo immaginato, e che la situazione appariva piuttosto intima e riservata.

Dopo le presentazioni, i convenevoli, la cortese offerta di cibi e bevande mi libero finalmente anche dell’imbarazzo (per fortuna durato pochi minuti) provato per aver creato in me stessa fantasiose – ed a tratti ansiogene – aspettative relative a questi due giorni nella tierra de espana.

A quel punto il Coach che è in me prende piede con le domande: come mai mi trovo qui con pochi altri? Come è avvenuto il processo di ricerca e di invito a questo evento?  E come mai io? Ai posteri l’ardua sentenza.

Eravamo seduti su comodi divani nella terrazza della villa e l’atmosfera è stata sin da subito risultata  tranquilla e confidenziale.

Oltre ai due ospitanti e ad un paio di collaboratrici personali della coppia, le persone presenti erano: un coach americano e la moglie tedesca che vivono in Germania, una coach venezuelana ed un suo amico spagnolo, una coach inglese, la regista americana Betsy Chasse (che ha diretto fra gli altri lavori “What the bleep do we know?”, un interessantissimo documentario sulla fisica quantistica) ed un cameraman. Fine.

Tranquillizzata la mia parte ‘riservata’, mi rilasso ed inizio a godermi il tempo attimo per attimo.

Quello che stava succedendo era assolutamente meraviglioso: era nata un’idea nelle menti brillanti dei coach Patryk e Kasia e questa stava per essere esplorata in quel luogo, con quelle persone, in quel momento… L’adrenalina ha invaso i miei tessuti ed ho avvertito che era quello il magnetico interesse che mi aveva in qualche modo portata fin li, nonostante il mio personale ‘film-mentale’ pre-tempo su come praticare il bird eye – people watching (ovvero il mio esercizio preferito che è l’”osservazione dall’alto”) in santa pace durante un evento di dimensioni potenzialmente colossali.

I due giorni sono passati intensamente, pieni di emozioni e di spunti interessanti che mi hanno permesso di testarmi e di sperimentarmi su nuovi aspetti professionalmente sfidanti e su ben noti aspetti personalmente toccanti.

Gli episodi salienti che hanno segnato significativamente questa mia esperienza sono stati tre: lo scambio di opinioni con la coach inglese, essere cliente del coach americano e la mia domanda specifica rivolta all’organizzatore. Tre parti, tre emozioni, tre tracce nella mia memoria.

L’obiettivo

L’evento aveva lo scopo di riunire persone per scambiare pensieri, considerazioni, opinioni, metodi ed approcci che potessero arricchire il più possibile quel bagaglio necessario agli ideatori per pianificare i passi successivi e raggiungere l’obiettivo di fare un film che innanzi tutto racconti come il Coaching può cambiare la vita ma che col tempo diventi anche fonte di inspirazione per un milione di persone.

Tralasciando i possibili altri obiettivi legati a qualcosa come un film, trovo che ci sia nobiltà in questo obiettivo, considerando anche quanto è vero che il Coaching ha cambiato pure la mia di vita!

Eravamo tutti coach diversi, provenienti da diverse parti del mondo, appartenenti ad associazioni diverse, con training e esperienze diverse ma tutti con la stessa passione, con una voglia comune (a prescindere dagli obiettivi di tale passione) e dall’impatto che tale voglia ha sui clienti di ciascuno di noi. 

Scambio di Opinioni sul Coaching

La prima emozione legata al primo accadimento è stata la rabbia, insieme a tutte le sue sfumature di colore rosso che ha agganciato immancabilmente durante la discussione: frustrazione, delusione, senso di ingiustizia, istinto di ribellione, profondo desiderio di fuga da una realtà.

Questo e tanto altro ho provato dalla cheratina delle unghie delle dita dei miei piedi fino alla cheratina delle punte dei miei capelli quando ho sentito pronunciare con una certa fermezza e decisione la frase: “We all publicly deny but we have to admit that all coaches tell clients what to do!!” (“Lo neghiamo tutti noi pubblicamente, ma dobbiamo ammettere tutti i Coach dicono ai clienti quello che devono fare!!).

Ebbene in quel preciso momento ho sperimentato fisicamente (e ne rimarrà traccia e memoria nella mia mente e nel mio corpo come un’impronta indelebile) ciò che ho studiato per tanto tempo durante la mia formazione come Counselor Umanistico in una scuola di Naturopatia: quanto veloce è il sistema nervoso – a fronte di uno stimolo recepito dai sensi – a lanciare il comando per rilasciare nel sangue uno dei potenti ormoni che il nostro corpo produce.

In millisecondi, milioni sono stati a livello sub-conscio i passaggi intra-psichici, intra-sistemici, di auto-osservazione, ma anche di auto-controllo ed infine di adattamento (su cui ho poi riflettuto e lavorato a lungo dopo l’accadimento…), che si sono poi conclusi in perfetto stile Coaching nella formulazione di domande che però in perfetto stile non-Coaching non hanno lasciato alcuno spazio ne tempo ad eventuali risposte: Da dove viene questa tua affermazione? Noi chi? Come fai a saperlo? Come fai a dire ‘tutti’ se io, per esempio, non lo faccio? Cosa ti fa pensare che ciò accade e viene negato?

La mia reazione era in difesa del mio valore assoluto, di ciò in cui credo, di ciò su cui baso le mie teorie, il mio approccio, i miei studi, il mio stesso stile di Coaching quindi in sostanza di “chi io sono”. Credo nella ricchezza, nelle capacità e nel valore di ciascuno dei miei clienti senza esclusioni; da qui l’enorme lavoro per rendere il mio Coaching scevro da interferenze e la difesa di un metodo che, anche se apparentemente poco diffuso, merita ugualmente rispetto, riconoscimento e distinzione.

Come dice Timothy Gallwey: “Coaching is about helping them to learn rather than teaching them.” (“Il Coaching è aiutare i clienti ad imparare piuttosto che insegnare loro qualcosa”).

Il dopo-accadimento è stato particolare: lei che in un qualche modo cercava di recuperare la situazione tentando di spiegarmi che quello che aveva detto non era esattamente quello che voleva dire; ed io che mi invece fluttuavo fra varie sensazioni, colpo di coda del ‘dopo-ormone’.

Sessione di Coaching

Completamente diversa è invece stata l’esperienza con il coach americano. Non sapevo e non avevo neanche mai immaginato prima di quel momento l’ampiezza di azione che il Coaching permette a chi decide di fare questo lavoro. Per me il Coaching era l’approccio che avevo conosciuto fino ad allora, quello che avevo imparato (o scelto di imparare?), di cui avevo letto (o scelto di leggere?), era un metodo che si basa su determinati criteri con proprie fondamenta sulla comunicazione.

Arriva il momento della mia sessione ed il coach mi chiede di sedermi e guardandomi negli occhi inizia a parlarmi. A dire il vero, non ricordo nei dettagli che cosa mi abbia detto, ma ancora ora è forte la sensazione di protezione, di connessione, di netta separazione fra noi due e tutte le persone intorno, fra noi due e tutto ciò che succedeva intorno. Ricordo anche sensazioni fisiche nuove; come venire abbracciati da enormi braccia, come se una enorme campana di vetro ci avesse gentilmente racchiusi ed isolati da tutto. Non sentivo più rumori, non mi rendevo conto del tempo e percepivo appena le sensazioni corporee.

Mi parlava, e mi spiegava quanto è importante essere consapevoli di ciò che abbiamo dentro. E mentre mi parlava con la sua mano destra mi mostrava dove cercare le informazioni che lui mi richiedeva. In pochi istanti mi sono ritrovata a passare da un pieno stato cognitivo in cui ragionavo con i colleghi gli aspetti del Coaching, ad uno stato assolutamente emotivo in cui ciò che avevo dentro fluttuava liberamente all’interno del mio petto e poi su per la gola, fino ad uscire al di fuori per essere delicatamente ma con decisione accompagnato altrove. Vivo nelle mie orecchie è ancora il suono della sua voce, vive sono ancora le sensazioni fisiche provate durante la sessione e permanente l’effetto che questo strano Coaching ha avuto sulla mia emozionalità.

E come se si fosse trattato di spegnere un interruttore, dopo la sessione tutto tornò come prima con in più (per me) una meravigliosa leggerezza di corpo ed anima.

La Domanda

I due giorni sono stati veramente diversi dai soliti eventi, pieni di partecipazione, di spunti di riflessioni, di concetti interessanti e di cose da imparare su di me e sugli altri. Ma nella mia testa dal momento in cui il tutto era iniziato e durante l’intero evento in testa mi ronzava sempre la stessa cosa: ma io perché sono qui? dove e come Patryk mi ha trovato? E perché?

Cosi, durante l’ultimo giorno raccolgo ogni briciola del coraggio, e decido di sparare la domanda direttamente a lui durante la cena finale in presenza di tutti. “So Patryk, how did you find me?” “E quindi Patryk, come mi hai trovato?”. E così, mentre prima di formulare la domanda (che nasceva in embrione dal primo istante in cui ricevetti la prima mail) avvertivo il sottile stato d’ansia che accompagnava la mia curiosità ed i miei dubbi, quando arrivò il momento di stare di fronte a tutti, pronunciare quelle parole e guardarlo dritto negli occhi, un enorme senso di inutilità relativo alla risposta che tanto desideravo avere mi invase prepotentemente: l’esperienza era stata così unica che qualsiasi risposta ottenuta non avrebbe mai cambiato ciò che avevo vissuto.

Il trailer del Documentario sul Coaching: https://www.youtube.com/watch?v=LFNRvadX67M

Emanuela Fulli, Olista e Coach ACC- ICF